giovedì 29 novembre 2007

Gabbo DJ


In occasione di eventi tragici, in cui è facile fare demagogia, semplice scrivere la cronaca nera e riempire le testate dei giornali, ritengo sia corretto attendere, prima di scrivere quel che si pensa, in modo da dare tempo e spazio alle emozioni di placarsi e alla mente di mettere a fuoco con lucidità gli eventi. E poi tirar fuori ciò che ogni persona di buon senso ha elaborato interiormente. Una decina di giorni fa, un ragazzo di ventotto anni è stato ucciso.



Forse per fatalità, forse per un momento di stupidità di un uomo spaventato, o forse… per tutti i forse che ci possono venire in mente. Perché sarà poi un giudice a fare chiarezza. E, voglio credere, sarà imparziale.

Non voglio scrivere di Gabbo-dj, hanno già parlato in troppi. Personalmente non l’ho mai conosciuto. Ma voglio scrivere di ciò che ho visto in televisione, di via Ferdinando Fuga e di Roma.

Per dodici anni ho vissuto in un edificio, nello stesso isolato, dove risiede il “Commissariato Ponte Milvio”. In via Ferdinando Fuga ci abitavo!

Via Guido Reni: per anni da bambino ho giocato nel cortile affianco alla caserma assaltata. All’epoca non c’erano le volanti ma il reparto Celere. E ancora oggi, quando vado a Roma, dormo lì affianco: ci abita mia madre. Al numero civico 22/b.

Le immagini trasmesse mi hanno fatto rivivere episodi, di anni passati, in cui in piazza c’ero anch’io. All’epoca da buon “giallorosso” avevo l’abbonamento della “Sud”. Ma quando iniziavano i tafferugli scappavo. Non volevo tornare a casa con qualche livido.

Ma in piazza c’ero quando, noi studenti, manifestavamo contro il governo democristiano, quando “Cossiga” si scriveva sui muri con la “K” e le “S” venivano sostituite dai simboli delle “SS”. E lì invece non scappavo quando i furgoni blindati, usciti da via Guido Reni, facevano il loro “dovere”, i loro “caroselli” tra i giovani estremisti dell’epoca.

A quei tempi, la domenica, con eschimo e sciarpa giallorossa, andavo allo stadio e, nel contempo, vivevo il disagio sociale di una generazione che un futuro migliore, magari diverso da quello che sognava, poteva sperare di averlo. Ma nessuno parlava di “ultrà”, allora ci chiamavano extraparlamentari.

In questi giorni, di fronte alla morte di Gabbo, si riconduce un fenomeno sociale, come il disagio dei giovani, al “tifo”, al “calcio malato”. La morte di un ragazzo ad un tragico errore.

Se Gabbo non è tra i suoi amici, se non entra nel negozio dei suoi genitori, lo dobbiamo, molto più probabilmente, ad una società “malata”. I cui sintomi evidenti sono la disoccupazione, il precariato e la soglia di povertà che ogni anno decine e decine di famiglie varcano.


Per curare una società “malata” occorre avere il coraggio di andare alla radice dei problemi, non restare in superficie a strombazzare notizie come si stesse facendo del gossip.

Il diritto all’informazione è “cosa seria”. Non basta correre a dare la notizia per battere sul tempo i concorrenti. Le notizie devono raccontare i fatti, così come si sono davvero svolti e non come è meglio raccontarle, e presumerle senza vagliarle, solo per fare audience.

Questa tragedia, purtroppo una in più, ha coinvolto due famiglie, per ragioni opposte. Ciascuno dovrebbe fare un po’ di raccoglimento e pensare a cosa cambiare della propria vita in modo da stimolare anche le istituzioni, che rappresentano tutti noi cittadini, a incidere con serietà e correttezza. È importante dare fiducia e speranza alle generazioni future. Con concretezza.

Una di queste domeniche cercherò la sciarpa giallorossa ed andrò allo stadio, non importa se in campo scende la mia squadra oppure no. A Torino, dove vivo, capita solo due volte l’anno. Andro’ in mezzo ai tifosi “ostili” pensando a Gabriele. Un ragazzo che, come tutti i ragazzi, non meritava di morire su una strada solo perché questa società non sa dare un futuro ai suoi giovani.